Sergio Ramelli – Il libro 1ª edizione Polacca

SERGIO RAMELLI. HISTORIA KTORA NADAL WZBVUZDA STRACH

1ª edizione novembre 2021 – Capitol Book editore, Varsavia


Sergio Ramelli – una storia che fa ancora paura

Milano, 1975. L’assassinio a sangue freddo di un diciottenne con le chiavi inglesi sotto la casa sua da parte di attivisti di sinistra non molto più grandi di lui è senza dubbio un fatto scioccante in sé. Tuttavia, è solo quello che è successo dopo – la campagna d’odio contro la famiglia della vittima, i cori alle manifestazioni di “10, 100, 1000 Ramelli” che chiedevano altri omicidi, l’impedimento di organizzare ceremonia funebre e centinaia di altri incidenti – che mostrano pienamente la portata del problema, che è la violenza di sinistra e i legami tra i militanti e i loro sostenitori nelle strutture statali e mediatiche.

Sergio non era un noto attivista politico. Era un ragazzo come tanti, giovane, pieno di vita e di passione. Aveva i suoi sogni, i suoi progetti per il futuro, la sua fidanzata, la sua squadra di calcio preferita. Era all’inizio del viaggio della sua vita. È stato assassinato da persone che non lo conoscevano, in un aguato pianificato. La sua colpa era quella di non condividere le convinzioni politiche dei suoi aguzzini. Questa era una ragione sufficiente per colpirlo in testa con delle chiavi di metallo. 

Osservando la direzione in cui si sta sviluppando la situazione nella Polonia di oggi, quanto sta crescendo l’aggressività degli attivisti di sinistra e la sua accettazione tra le “élite” d’opinione, e come le istituzioni statali permettono passivamente agli estremisti di sinistra liberale di spingere i limiti, non si può fare a meno di notare quante analogie ci sono con la situazione in Italia negli anni ’70. Gli anni di piombo in Italia sono un avvertimento per noi di quello che può succedere se non mettiamo un argine alla violenza di sinistra al momento giusto.

(Traduzione dalla IV di copertina)

Cover edizione polacca

PREFAZIONE (traduzione dal Polacco)

Sergio Ramelli – una storia degli “anni di piombo”

La storia descritta in questo libro – l’assassinio di uno studente di 18 anni, massacrato sotto la sua casa da un gruppo comunista composto da studenti di medicina – è senza dubbio scioccante e assurdamente tragica, anche senza conoscerne il contesto storico. Forse ancora più scioccante, tuttavia, è il fatto che non è stato un caso isolato, ma solo uno dei migliaia di casi di violenza insensata e ideologicamente motivata che ha travolto l’Italia negli anni ‘70, un decennio noto come gli “anni di piombo”, iniziato con la bomba del dicembre 1969 nella sede della banca in Piazza Fontana a Milano e terminato nei primi anni ‘80 con lo smantellamento delle Brigate Rosse comuniste. Il periodo tra questi due momenti fu segnato da attacchi terroristici, scontri in piazza, rapimenti e assassinii, il più noto dei quali fu il rapimento e l’assassinio dell’ex primo ministro Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel maggio del 1978.

Lo scenario di questa “guerra strisciante” era l’Italia sotto il governo della Democrazia Cristiana, e le parti principali erano i cosiddetti “opposti estremismi”: sinistra e destra. La sinistra, che aveva un vantaggio considerevole, consisteva principalmente in numerose organizzazioni comuniste, chiamate eufemisticamente “extraparlamentari”, che in pratica significava “estremiste”, così come socialisti e anarchici.  La destra, molto meno numerosa, si concentrava soprattutto intorno al partito Movimento Sociale Italiano (MSI) – definito “post-fascista”, anche se in pratica era un partito nazional-conservatore – e la sua organizzazione giovanile Fronte della Gioventù, così come l’organizzazione studentesca FUAN (Fronte universitario d’azione nazionale).  C’erano anche diverse organizzazioni marginali ma più radicali a destra, come il Movimento Politico Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Anni dopo fu confermato – anche se tutti lo sapevano già prima – che c’era anche una terza parte che tirava le fila dietro le quinte, cioè i servizi segreti, sia italiani che stranieri nonché la loggia massonica Propaganda 2 (nota come P2), che associava centinaia di membri dell’élite italiana, compresi politici di alto livello, giudici e capi delle forze armate.

“Gli anni di piombo” sono indicati come gli anni ‘70, ma i semi della violenza avevano già iniziato a germogliare negli ultimi anni ‘60. Nel 1968, in Italia, come nel resto dell’Europa occidentale, scoppiarono le proteste studentesche, che spesso portarono all’occupazione di università e a scontri tra studenti e polizia. Inizialmente ci parteciparono anche membri della destra, ma dopo breve tempo furono emarginati, e l’egemonia nel movimento studentesco fu conquistata dall’estrema sinistra, con il risultato che negli anni ‘70 le università divennero terreno fertile per la crescita dell’estremismo e del terrorismo. Nel frattempo, la vita sociale italiana ricevette un altro shock con l’ondata di proteste degli operai nel nord del paese nell’autunno del 1969, che passò alla storia come l’autunno caldo.

 Sia la rivolta studentesca che le proteste hanno portato nuovi sostenitori fanatici alla sinistra. Le organizzazioni di sinistra spuntarono come funghi dopo la pioggia: studentesche, operaie e miste, tra le quali le più note furono il Movimento Studentesco, Avanguardia Operaia, Autonomia Operaia, Potere Operaio e Lotta Continua. Alcune di esse avevano i propri servizi d’ordine, creati per sorvegliare il regolare svolgimento delle manifestazioni, ma che in molti casi si trasformarono in milizie, destinate a combattere gli avversari politici – sia  “fascisti” che membri di organizzazioni rivali. Uno dei loro simboli divenne l’Hazet 36, una pesante chiave inglese, portata come arma, tra gli altri, dai membri del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia, che per questo motivo venivano chiamati “idraulici”. Lo scopo di portare con sé un tale strumento, non solo durante le manifestazioni, non era un segreto – uno degli slogan più popolari sollevati nei cortei comunisti era “Hazet 36, fascista dove sei?”. E in effetti, la storia dimostra che era un’arma spesso usata come mezzo di ‘antifascismo militante’, che a volte portò a conseguenze tragiche – fu con questo strumento che Sergio fu picchiato, ma, come mostrano gli altri esempi citati in questo libro, fu solo una delle tante persone attaccate in questo modo.

A partire dalla fine degli anni ‘60 e per tutti gli anni successivi, la sinistra si rafforzò e la destra fu sempre più emarginata, politicamente, socialmente e culturalmente. C’era, tuttavia, un aspetto in cui era la destra ebbe un famigerato “vantaggio”, ed era il numero di attacchi terroristici su larga scala realizzati nei primi “anni di piombo” – o almeno questo è quello che finora indicano i risultati delle indagini, anche se in molti casi l’identità dei veri mandanti è molto discutibile. Furono gli estremisti di destra Franco Freda e Giovanni Ventura di Ordine Nuovo i presunti autori dell’attentato compiuto a Milano il 12 dicembre 1969, in cui una bomba piazzata in una banca uccise 17 persone e ne ferì 88. I neofascisti dei gruppi Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo furono anche accusati di altri cinque attentati tra il 1970 e il 1974, che uccisero un totale di 33 persone. Nel frattempo, la notte del 7/8 dicembre 1970, si stava preparando un altro colpo – questa volta un colpo di stato, da parte di un ex comandante militare della seconda guerra mondiale, il principe Junio Valerio Borghese, allora capo del Fronte Nazionale. Voleva, con la partecipazione di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo e con l’appoggio di alcuni militari, occupare le sedi di alcuni ministeri e della televisione di stato. Tuttavia, questo piano è stato  mentre era già in corso, e le ragioni di questa decisione scompaiono in un groviglio di congetture e prove circostanziali che portano in direzione della P2 e dell’intelligence americana. E anche se il piano fu definitivamente abbandonato, fu poi rivelato, contribuendo così, insieme ai successivi stragi da parte di membri della destra, allo sviluppo di una sorta di psicosi antifascista della sinistra, che da allora in poi giustificò ogni atto di violenza, anche il più efferato, con la paura di complotti fascisti. È difficile da credere, ma questo fu anche il caso dell’aggressione a Ramelli – durante il processo, uno degli assassini, Marco Costa, spiegò il brutale attacco all’adolescente indifeso con le parole «Bisogna ricordare che allora avevamo paura di un colpo di Stato» e citò come uno dei motivi di questa paura… una parata militare in occasione di una festa nazionale.

Col passare del tempo, la sinistra cominciò anche ad adottare metodi di lotta più avanzati. Per molti attivisti di questa parte, non era sufficiente essere in maggioranza in piazze e avere il sostegno delle autorità politiche e dei mass media – loro sognavano una vera rivoluzione, e questa non poteva essere raggiunta organizzando cortei o picchiando gli avversari politici. Era quindi necessario ricorrere ad altri mezzi. Il primo gruppo ad usare metodi terroristici fu un’organizzazione chiamata Gruppo XXII Ottobre di Genova, che dal 1970 iniziò a piazzare esplosivi, oltre a commettere rapimenti e omicidi. Fu sciolta appena un anno dopo, ma il suo esempio ispirò altre organizzazioni “armate” di sinistra: Gruppi d’Azione Partigiana (GAP) e il più famoso, le Brigate Rosse. Quest’ultima fu fondata nel 1970 e inizialmente si limitò ad azioni dimostrative, chiamate “propaganda armata”, che miravano a intimidire i proprietari delle fabbriche e gli avversari ideologici, ma senza causare vittime. I “brigatisti” hanno così picchiato e intimidito coloro che consideravano nemici del proletariato, hanno piazzato bombe sui territori delle fabbriche e rapito i proprietari delle fabbriche, ma di solito li hanno rilasciati interi e sani. Solo dopo tre anni passarono a metodi di attività molto più drastici: nel 1973 minacciarono di uccidere un ostaggio chiedendo la liberazione di membri condannati del Gruppo XXII Ottobre, e nel 1974, durante un’incursione nella sede del MSI a Padova, uccisero a colpi di pistola membri di quel partito. Tra il 1974 e il 1982 le Brigate Rosse furono responsabili della morte di 72 persone, soprattutto poliziotti e carabinieri, ma anche politici, giornalisti e imprenditori. I suoi membri hanno anche commesso rapimenti per riscatto, furti e rapine per finanziare le loro attività. In questo modo, le Brigate Rosse crebbero fino a diventare la più grande organizzazione terroristica del paese: a seconda del periodo, c’erano 500-1000 membri permanenti – totalmente dedicati all’organizzazione e che spesso vivevano in clandestinità – e il doppio di questo numero di collaboratori attivi. Gli alleati delle Brigate comprendevano anche decine di migliaia di attivisti e simpatizzanti di altri gruppi comunisti, che o simpatizzavano apertamente con i terroristi, credendo al massimo che le Brigate fossero “compagni che sbagliano”, o, seguendo il principio “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”, erano pronti a coprire i terroristi, purché non collaborare in alcun modo con le forze dell’ordine.

L’ondata di violenza politica crebbe, raggiungendo il suo picco nel 1977-1978. Questo periodo vide anche un cambiamento nei metodi di lotta in piazza – le armi da fuoco furono sempre più usate durante le manifestazioni, e gli scontri con la polizia si trasformarono spesso in sparatorie. Una di queste situazioni è stata immortalata in una fotografia che è diventata un simbolo degli “anni di piombo”. – Mostra Giuseppe Memeo, attivista di Autonomia Operaia e terrorista, che punta una pistola contro i poliziotti durante una sparatoria a Milano. Anche il numero delle organizzazioni terroristiche è aumentato esponenzialmente: da 92 nel 1977 a 269 un anno dopo. Questi erano in gran parte gruppi di sinistra, e una delle ragioni del loro fiorire fu il “successo” delle Brigate Rosse – il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, uno dei leader della Democrazia Cristiana, nella primavera del 1978.

La fine degli anni ‘70 vide anche l’ascesa di gruppi terroristici di destra, e il motivo principale della loro formazione era una risposta alla violenza della sinistra. Francesca Mambro, una delle figure principali dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), una delle più note organizzazioni terroristiche neofasciste, ricorda che il gruppo si radicalizzò in reazione alla notizia della strage di Acca Larentia a Roma – dove i terroristi comunisti uccisero due giovani attivisti del MSI nel gennaio 1978. – e al senso di impotenza e delusione causati dalla passività di MSI. Durante i quattro anni di attività dell’organizzazione, decine di suoi membri, divisi in “cellule” semi-autonome, hanno compiuto assalti, rapine e omicidi. Questo causò 33 morti, senza contare le vittime dell’attentato di Bologna, la cui paternità è ancora oggi in dubbio. Quando, il 2 agosto 1980, 85 persone furono uccise e 200 ferite nell’esplosione di una bomba in una stazione ferroviaria di Bologna, i sospetti si rivolsero immediatamente all’estrema destra. Dopo un lungo e complicato processo (in realtà tre processi, l’ultimo dei quali si è concluso nel 2020), due terroristi dei NAR sono stati condannati per l’attentato: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, anche se entrambi si dichiarano ancora innocenti. Anche molti pubblicisti e storici non credono alla loro colpevolezza, sottolineando che l’attentato su larga scala non corrispondeva affatto ai metodi e agli obiettivi dei NAR, mentre nel corso delle indagini sono emersi molti fili che portano alla già citata Loggia massonica P2, alla mafia e ai servizi segreti, italiani e stranieri.

Dopo l’assassinio, la polizia lanciò una vasta operazione per eliminare le “organizzazioni sovversive”, specialmente quelle di destra. Migliaia di attivisti di destra sono stati interrogati e centinaia arrestati. Dopo questa serie di perquisizioni, arresti e condanne, le organizzazioni terroristiche di destra sono state quasi completamente smantellate. Anche i gruppi estremisti di sinistra stavano decisamente perdendo l’impatto. A partire dal 1980 iniziò la disintegrazione delle Brigate Rosse, dovuta principalmente a due fattori: i conflitti interni e la legge sui pentiti introdotta nel 1980, che fece sì che molti ex terroristi accettassero di testimoniare per evitare la pena o ottenere una pena più leggera. Inoltre, Mario Morinetti, il leader dell’organizzazione, fu arrestato nell’aprile 1981. Dopo questo evento, le BR si divisero in quattro fazioni principali e in una serie di gruppi più piccoli e indipendenti, che però non ebbero più molta rilevanza. L’ultima grande azione delle Brigate Rosse ebbe luogo nel dicembre 1981. – L’ultima grande azione delle Brigate Rosse ebbe luogo nel dicembre 1981, quando rapirono il generale americano James L. Dozier, ma fu rilasciato dalla polizia poco tempo dopo. Le Brigate Rosse furono finalmente sciolte nel 1988, ma la maggior parte delle fazioni dell’organizzazione era già stata sciolta nel 1982.

Così finì il periodo del terrorismo di massa, e con esso finirono anche gli “anni di piombo”. Qual era il loro bilancio? Secondo gli autori di questo libro, “dal 1969 al 1984 gli attentati (di qualsiasi natura o entità) sono stati 14.495 di cui 343 con morti e feriti”, mentre “conto delle vittime accertate in quei 15 anni: 394 morti e 1.033 feriti” – con riferimento solo alle vittime “accertate”, cioè quelle per le quali è stato possibile stabilire un legame diretto tra la morte e l’aggressione subita. Quante vittime indirette ci sono state, che sono morte a causa della violenza che ha colpito loro o i loro parenti? Non lo sapremo mai, ma si deve supporre che ce ne fossero altre centinaia. Tra questi c’è sicuramente il padre di Sergio, Mario Ramelli, che “non si è mai ripreso dalla tragedia” e, a causa del suo dolore e della successiva persecuzione della sua famiglia da parte dei comunisti, è morto d’infarto tre anni dopo la morte del figlio.

E che dire degli autori di questa violenza? All’inizio degli anni ‘80, le forze dell’ordine hanno condotto numerose retate, in seguito alle quali alcune migliaia di persone sono state arrestate e accusate di essere coinvolte in attività terroristiche. La grande maggioranza di loro apparteneva a organizzazioni di sinistra, di cui 1 337 erano membri delle Brigate Rosse e 923 del gruppo di sinistra Prima Linea. Questi sono numeri significativi, eppure erano solo una piccola percentuale di coloro che hanno effettivamente commesso violenza – la stragrande maggioranza di coloro che hanno picchiato gli oppositori politici, organizzato agguati o piazzato bombe sono sfuggiti alla giustizia o hanno ricevuto sentenze simboliche. Anche da questo punto di vista, la storia dell’assassinio di Sergio è “tipica”: i suoi assassini sono stati arrestati 10 anni dopo l’attacco, ma delle otto persone che hanno partecipato all’agguato solo due – gli aggressori che hanno picchiato direttamente Sergio – sono andati in prigione per qualche anno (tutti di loro hanno passato qualche mese nel carcere dopo l’arresto). Inoltre, di coloro che hanno ricevuto alte condanne per terrorismo, la stragrande maggioranza è già tornata nella società – nel 2018, delle diverse migliaia di condannati per attività terroristiche, solo 54 persone sono rimaste in prigione, il resto o è stato rilasciato condizionalmente dopo 26 anni per buona condotta, o sta scontando la pena in un sistema semi-aperto o in qualche altro modo che permette loro di stare fuori dalle mura.

Quest’ultimo aspetto è da tenere presente quando si cammina per le strade d’Italia e si incrociano eleganti sessantenni, alcuni dei quali possono avere un passato da militanti o terroristi. Per esempio, Claudio Scazza, condannato per la sua parte nell’omicidio di Sergio Ramelli, è ora primario all’ospedale Niguard di Milano. A sua volta, uno dei suoi compagni – in politica, attività e condanna per omicidio – Claudio Colosio insegna medicina all’Università di Milano, mentre l’altro, Antonio Belpede, è primario dell’ospedale della città di Barletta.

***

Questo è il panorama generale degli “anni di piombo” italiani, quel periodo di violenza politica derivante dalla lotta tra “opposti estremismi”. Tuttavia, per comprendere meglio la dinamica di questa lotta e le sue conseguenze, sarebbe necessario rispondere alla domanda: quali erano i rapporti di forza tra l’estremismo “rosso” e quello “nero”? Questa è una domanda molto difficile a cui rispondere, ma uno sguardo alla situazione parlamentare dà un’idea della polarizzazione della società: a metà degli anni ‘70, il Partito Comunista Italiano era il più forte partito comunista d’Europa in quel momento, e in Italia era alle calcagna della Democrazia Cristiana che era al governo. PCI fu seguito dal Partito Socialista Italiano (PSI), e nel 1975 si unì alle fai partiti di sinistra anche Democrazia Proletaria, fondata da membri dei gruppi di estrema sinistra Movimento Studentesco e Avanguardia Operaia,. Nelle elezioni parlamentari del 1976 questi tre partiti di sinistra ricevettero un totale di 46% dei voti, mentre il MSI di destra ricevette il 6,1%. A titolo indicativo, quindi, si può supporre che questa differenza sia una buona indicazione del rapporto medio di sostegno popolare per la sinistra e per la destra, che era intorno a 7:1, e che probabilmente riflette bene anche il rapporto delle forze “sul territorio”. Si potrebbe, naturalmente, fare qui la riserva che i risultati elettorali dei partiti legittimi non si sono necessariamente tradotti in numeri di estremisti violenti, ma un’analisi di molte storie del periodo mostra che questi terroristi potevano contare su un elaborato sistema di protezione, creato da “compagni” che sedevano nei maggiori partiti del paese, nei tribunali, nel mondo della cultura e nelle redazioni dei giornali. Inoltre, la Democrazia Cristiana, che all’epoca era al potere, ha anche chiuso un occhio sulla violenza di sinistra e ha cercato un riavvicinamento con il Partito Comunista in quello che era chiamato un “compromesso storico”. Per uno strano scherzo del destino, fu il principale “architetto” di questo progetto, Aldo Moro, ad essere assassinato nel 1978 dalle Brigate Rosse, e fu solo dopo questo evento che il governo si rese conto che il terrorismo comunista era una minaccia reale.

La sinistra aveva quindi un vantaggio significativo in questa “guerra civile”, sia in termini di numeri che di risorse. Tuttavia, questo vantaggio non era uniformemente distribuito – mentre nel sud del paese c’erano luoghi dove le forze erano più o meno uguali e il conflitto non era così feroce, nel nord l’estrema sinistra aveva un vantaggio multiplo sulla destra e ricorse a metodi drastici. Un caso speciale fu Milano, una città che era uno dei più importanti centri economici e intellettuali del paese e allo stesso tempo aveva una forte tradizione “antifascista”, quindi era il luogo perfetto per realizzare una mobilitazione della sinistra studentesca e operaia. Fu all’università statale di Milano che furono fondati il Movimento Studentesco Marxista (MS) e la rivale Avanguardia Operaia. Anche Lotta Continua prosperava. Era impossibile non notare l’attività di queste organizzazioni, perché già dalla fine degli anni ‘60 c’erano state regolarmente manifestazioni e cortei in città, spesso accompagnate da scontri con avversari politici o con la polizia, atti di violenza e devastazione dei dintorni. In queste condizioni, nel dicembre 1970, il prefetto di polizia Libero Mazza invia un rapporto al ministero dell’Interno in cui segnala la presenza in città di “circa 20.000” estremisti, appartenenti quasi esclusivamente alla sinistra, che reagiscono a ogni tentativo di limitare le loro attività con accuse di “fascismo”, “repressione” e “attacco alle libertà civili”. Il prefetto ha sottolineato che questi estremisti avevano un senso di impunità e che, con le loro strutture paramilitari ben equipaggiate, potevano presto passare a operazioni molto più avanzate. Mazza ha quindi esortato il governo a intraprendere una forte azione legale per frenare l’uso della violenza a sfondo politico prima che la situazione si deteriori rapidamente.

Il rapporto perfezionista di Mazza fu ignorato dal governo, e dopo la sua pubblicazione sulla stampa, le accuse di allarmismo, di esagerazione dei fatti e, addirittura, di “fascismo” furono riversate sull’autore. Nel frattempo, negli anni successivi, come sappiamo, la situazione deteriorò davvero, portando ad altre tragedie. I loro autori non erano, naturalmente, esclusivamente di sinistra, come nel caso del cosiddetto “giovedì nero” a Milano, il 12 aprile 1973. Quel giorno doveva aver luogo una manifestazione del MSI con altri gruppi di destra “contro la violenza rossa” ma è stata vietata all’ultimo momento dalla polizia. Ciononostante, la marcia prevista è partita e gli scontri che ne sono seguiti hanno portato alla morte del poliziotto Antonio Marino e al ferimento di altre 12 persone.  Tuttavia, dei due “estremismi”, fu la sinistra ad essere molto più violenta, come dimostrano le cifre: tra il 1972 e il 1976 ci furono 150 aggressioni a Milano che risultarono in “lesioni gravi”, 19 delle quali contro attivisti di sinistra e 131 contro attivisti di destra. Peggio ancora, gli estremisti di sinistra hanno cominciato non solo a picchiare ma anche a uccidere. Una delle vittime fu il commissario Luigi Calabresi, assassinato nel 1972 proprio a Milano da due membri di Lotta Continua, incaricati – come fu stabilito nel processo – dai fondatori di questa organizzazione.

Negli anni seguenti, l’estrema sinistra ha praticamente terrorizzato la città attraverso attacchi costanti, manifestazioni tumultuose, vandalismi e l’occupazione di scuole, università e persino ospedali, godendo di un’incredibile tolleranza da parte delle autorità. Il neurochirurgo Carlo Forni, che all’epoca lavorava al policlinico di Milano, ricorda:

“In questo periodo ci fu una severa occupazione del Policlinico. Diversi primari e cattedratici furono insultati, minacciati e addirittura malmenati da studenti contestatori, dei cosiddetti collettivi studenteschi che occupavano anche l’Università Statale e i comitati unitari di base cui aderiva gran parte del personale sanitario. Per affermare la loro protesta, decisero di sottoporre il policlinico a blocco totale. Nessuno, salvo i medici e gli infermieri di turno, poteva varcare i cancelli senza l’autorizzazione dei picchetti. Le cucine erano occupate e i pazienti dovevano sopravvivere con ciò che portavano loro i parenti. Chi non aveva visitatori doveva far conto sulla generosità dei vicini. I ricoveri erano stati bloccati e i medici obbligati a dimettere i pazienti, anche se non del tutto guariti o in fase di accertamento. La sala operatoria funzionava solamente per coloro che, già ricoverati. necessitavano di un intervento assolutamente urgente, certificato da uno degli infermieri più anziani.

Io avevo la stima di un paio di quelli impegnati nel mio reparto, fra i più accaniti. Pur sapendo che non ero certamente loro simpatizzante, tuttavia rispettavano e apprezzavano la mia maniera di gestire sia il rapporto con i pazienti e i loro familiari, sia quello con il personale infermieristico e ausiliario. Tuttavia, non se la sentivano di fare eccezioni perché i loro compagni, di picchetto all’ingresso del policlinico, non ammettevano eccezioni. Li presi da parte e feci appello alla loro coscienza, rimarcando che chi risentiva di più della loro protesta era proprio quel popolo, in nome del quale dicevano di battersi. Mi risposero che per fare la rivoluzione il popolo doveva soffrire”

In un tale clima politico, per esprimere opinioni di destra – o comunque anticomuniste, dato che anche i liberali e i cattolici erano vittime di attacchi – era necessario un grande coraggio, soprattutto tra le mura di una scuola superiore o di un’università. Un giovane che sceglieva un tale percorso doveva fare i conti con il fatto che si sarebbe trovato sotto lo sguardo attento dei “compagni”, e che qualsiasi gesto inopportuno da parte sua poteva essere considerato una manifestazione di “fascismo” e diventare un motivo di persecuzione, che comprendeva intimidazioni, “processi politici” e persino violenza fisica – come fu anche nel caso di Sergio.

***

Quindi, come possiamo vedere, la storia di Sergio Ramelli è una storia speciale – non solo rappresenta un episodio degli anni di piombo, mostrando quanto diffusa e insensata fosse la violenza in quegli anni, ma anche rivela, come nessun altro, tutta l’assurdità e la tragedia di quel periodo. Questa è la storia di un ragazzo di 18 anni cresciuto a Milano, l’”occhio del ciclone” politico di quegli anni, accusato di “fascismo” dai suoi compagni di classe sulla base di un tema in cui criticava un omicidio compiuto da terroristi, e poi, perseguitato, “giudicato” da adolescenti comunisti e costretto a lasciare la scuola nella totale indifferenza dei suoi insegnanti. È stato poi preso di mira dai “servizi d’ordine” – cioè, in pratica, squadre armate – di una delle più grandi organizzazioni comuniste, per le quali non era più un essere umano, ma solo la personificazione di un’ideologia odiata, di cui sbarazzarsi. Questo compito di “sbarazzarsi del fascista” fu affidato agli studenti della Facoltà di Medicina, che poi si appostarono fuori dalla sua casa per spaccargli la testa con chiavi inglesi. 

Tutti gli elementi che hanno portato al tragico risultato degli “anni di piombo” sono concentrati qui come in una lente. C’è l’odio politico selvaggio, alimentato dalla paranoia “antifascista” e dal senso di impunità; ci sono i “cattivi maestri” che alimentano questa paranoia; c’è la metodologia studiata e perfezionata della violenza, che spiega persino come picchiare gli avversari politici; ci sono i media, che difendono questa violenza compiuta da una sola parte; e c’è l’indifferenza della “gente normale”. Ma soprattutto, c’è un’ideologia malata che ha stupefatto dei giovani istruiti a tal punto che loro, studenti di medicina, in nome di slogan politici, hanno deciso di rompere la testa a un innocente sconosciuto, un adolescente, e non ci hanno visto nulla di male.

Forse questa storia deve essere guardata in modo ancora più ampio. Sergio è morto in Italia quasi mezzo secolo fa, i suoi assassini sono stati arrestati e processati – quindi sembrerebbe che il caso sia chiuso. Eppure non è così, perché il nome di Sergio Ramelli è ancora un atto d’accusa aperto contro la cecità ideologica e la violenza assurda di ogni tempo e luogo. In qualsiasi paese, può ancora succedere che i “cattivi maestri” – politici, giornalisti e celebrità – invocando la “democrazia” seminino odio e disprezzo per chi la pensa diversamente. Non possiamo escludere la possibilità che da qualche parte nei cortei che portano striscioni che chiedono “uguaglianza” e “giustizia” (di classe, economica o altra) si alzino allo stesso tempo slogan disgustosi e pieni di odio verso gli avversari politici. Non possiamo escludere la possibilità che da qualche parte qualcuno si senta in diritto di attaccare in gruppo una persona sconosciuta e indifesa, o che in tal caso personalità influenti e i media difendano gli aggressori o che si organizzino manifestazioni in loro difesa. Non possiamo escludere che la salute o la vita di qualcuno sia messa in pericolo a causa della cecità ideologica e del desiderio di distruzione.

Non possiamo escludere che la storia di Sergio Ramelli si ripeta.

Tuttavia, possiamo fare qualcosa per renderlo meno probabile – possiamo ricordare alla gente il valore della coscienza e del pensiero indipendente. Possiamo mostrare quali assurdità e tragedie si verificano quando si segue ciecamente il gregge, accettando sconsideratamente l’odio e la violenza abilmente nascosti dietro slogan umanitari. Che il desiderio di “mamma Ramelli” si realizzi e che la storia di suo figlio sia un monito per le generazioni future, non solo in Italia, ma anche ovunque ce ne sia bisogno.

Sylwia Mazurek


Il libro – Le edizioni